“Donne il danno più riuscito”, lettera aperta alla magistrata Silvia Curione
Gentilissima Dott.ssa Silvia Curione,
sovente nei miei scritti, nel definire le donne uso il vocabolo “DANNO”, lo colloco nella cornice del virgolettato perché a mio avviso questo termine accostato alla parola “DONNA” può avere solo accezioni positive. Le donne sono il “Danno” più soave, più sensibile, più osteggiato, più corteggiato, più abusato, più declassificato, più ucciso, più materno, più capace.
Leggendo quello di cui è stata protagonista, orgogliosamente mai passiva, posso solo ampliare l’elenco di aggettivi che una società, ancora troppo, maschilista, stereotipata e patriarcale destina all’universo femminile. Non tanto per stilare una sterile lista di traguardi inaccessibili per le donne, tantomeno per discutere della mancata e acclarata equità delle condizioni in cui gareggiamo ogni giorno, anche semplicemente, per dire la propria su una corsa di Formula Uno o per scendere in campo come Nazionale Femminile di Calcio, ma semplicemente per constatare quanto un palcoscenico fatto di pupari e burattinai dal sesso unico e monotono possa osteggiare la crescita culturale, sociale ed economica di un paese.
Un paese che arranca, anche, perché ritiene di dover essere “maschio”. Quest’ultimo virgolettato, a ragion ben evidente, vuol solo evidenziare quanto poco mi fidi in un circolo di uomini molto caporali e poco competitivi.
Il linguaggio di molti di essi, per fortuna non di tutti, ma purtroppo di un numero elevato, di quel numero che indirizza, decide e abusa è sempre più misero e putrefatto, se ne riconosce la tanfa da chilometri. Per fortuna quando riflettono in specchi limpidi come quello di cui Lei è composta, vengono denudati e all’appari del vero cadono miseramente.
Scaliamo le stesse montagne, ma a noi non sono concesse né piccozze e né corde, come se la cima fosse prerogativa di una élite in possesso di requisiti eccelsi. Tutti troppo intenti ad indossare i pantaloni, per ammettere, che ogni requisito di cui possano forgiarsi, laddove esista per davvero, glielo ha impresso una donna nel momento in cui li ha dati alla luce.
Al netto delle vicende giudiziarie, che ignoro e che potrò comprendere e giudicare nella loro complessità, facendomi anche opinioni e manifestando dissenso e giudizi verso singoli e precisi soggetti, solo a sentenze definitive, mi sono presa la licenza di pronunziarmi, perché il leggere quel “bambina mia” mi ha da subito scomposto l’epidermide e lapidato l’animo. Solo dopo due giorni, sono riuscita ad approdare ad una riflessione più composta, che in maniera laica, da semplice e poco nota scrittrice posso augurare e scrivere per il mio, per il nostro paese.
Una bambina o un bambino, possono essere paragonati a cuccioli indifesi, che se addestrati al combattimento saranno costretti a conoscere e a praticare, la cattiveria, il gioco losco, il sangue e la morte. Se educati al rispetto, al concorre corretto, all’annaffiare la società in cui vivono, curandone o prevenendone gli attacchi parassitari, avranno la fortuna di vivere in un’ oasi e non in un deserto, non conosceranno l’aridità culturale, calpesteranno un suolo dove la civiltà, la crescita e l’economia, equamente diffusa e partecipata, li renderanno realmente liberi e tangibilmente migliori.
Nello slancio dell’ammirazione, che Lei è stata in grado di suscitarmi, non Le nascondo che a mio figlio e a mia figlia, continuerò a dare concimi di rispetto affinché siano i manovali di una società fatta di bambini e bambine che non dovranno mai conoscere le catene e la prigionia dell’aggettivo possessivo “mia”.
Grazie a nome di una donna che auspica in un paese con più tacchi e meno pantaloni.
Con osservanza e stima
Cesira Donatelli
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