Arbeit macht frei, “il lavoro rende liberi”
Si chiamava Jan Liwacz ed era un fabbro, prigioniero nel campo di concentramento di Auschwitz, numero 1010, di origine polacca, non ebreo, l’uomo a cui intimarono di forgiare la scritta “Arbeit macht frei”, ossia, “il lavoro rende liberi”, fuori dall’omonimo campo.
La frase, utilizzata per la prima volta a Dachau, traeva origine dal titolo di un romanzo di Lorenz Diefenbach, scritto qualche tempo prima, e sembrava quasi voler schiacciare il popolo ebreo ed ogni altro ritenuto inferiore per lingua, cultura e tradizioni… Avvenne ad Auschwitz che un uomo qualunque, un numero in mezzo ad altri numeri, prese una decisione coraggiosa: manifestò il suo dissenso di fronte ai suoi persecutori. Al momento di forgiare il motto prescelto egli scrisse la lettera “b” di Arbeit all’incontrario, ossia con il cerchietto in basso più piccolo e quello in alto più grande (come si può vedere nell’immagine).
Il gesto di Liwacz mostra, silenziosamente, al mondo intero ciò che il prigioniero, in rappresentanza della razza umana, rivendica come proprio e inalienabile diritto: la dignità.
E se oggi, nelle nostre case, possiamo pronunciare la parola Democrazia, se possiamo goderne la quotidianità e toccarne con mano la tranquillità, lo dobbiamo a uomini e donne come lui, come Jan Liwacz, che hanno testimoniato alle generazioni future, e a quella presente, che la vita è più forte della morte, che la razza non esiste e che gli uomini possono vivere in pace, come fratelli.
A distanza di 74 anni dall’Olocausto, molti altri sulla terra se ne consumano ogni giorno. Migliaia e migliaia di vite spezzate senza ragione, persone affamate e senza conforto e persecutori…tanti…che hanno bisogno di conversione…
Quando finirà il male sulla nostra terra…, forse, quando nel proprio cuore ciascuno di noi sarà in grado di scrivere una “b” rovesciata.
Fabio Picone
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